
Quando il perdono ti libera davvero
Oggi ti porto nel terreno più scivoloso del cuore umano: il perdono. Sì, proprio lui… questo strano sconosciuto che ci sfiora ogni volta che qualcuno ci ferisce. E tu lo sai bene: quando fa male, fa male sul serio. Eppure Gesù, con una semplicità che spiazza, ci dice: «Se sette volte ritornerà a te dicendo: Sono pentito, tu gli perdonerai» (Lc 17,1-6). Il mio in(solito) commento.
E allora mi chiedo, e ti chiedo: perché dovresti perdonare chi ti ha fatto del male? Tu e io conosciamo a memoria il Padre nostro. Lo diciamo ogni giorno, quasi in automatico: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori…» Ma se lo vivessimo davvero, quella frase ci tremerebbe tra le mani. I “debiti” non sono numeri. Sono ferite, parole non dette, parole dette male, attese tradite. E i “debitori” sono le persone che ci hanno ferito proprio lì dove eravamo più fragili. E davanti all’offesa, le strade sono due. Solo due: vendetta o perdono. La prima sembra la più naturale. La più istintiva. La più umana: rispondere al male col male. Ma è come provare a spegnere un incendio con altra benzina. Ci si brucia tutti, e alla fine il dolore raddoppia.
Kalil Gibran lo dice con una frase affilata come una lama: «Occhio per occhio… e il mondo diventa cieco».
L’altra strada è il perdono. Quella faticosa, controvento, che sembra andare nella direzione opposta a quella che il cuore urlerebbe. Eppure è l’unica che guarisce davvero. Perché il perdono guarda avanti. Ti solleva. Ti rimette in cammino. Il rancore, invece, ti incatena al passato. E quando resti legato al passato, non vivi… sopravvivi.
A volte non mi piace tirare in ballo il greco, ma qui è irresistibile. Il verbo “aphíemi”, cioè “perdonare”, significa “lasciare andare”, “liberare”. È un’immagine poderosa. Perdonare non è fare un favore agli altri. È spezzare le catene che ti tengono prigioniero del dolore. È sciogliere il nodo che ti soffoca. È mollare il carico che ti piega la schiena.Il perdono è un atto di libertà. La tua.
E tu sai quanto sia difficile. Perché quando qualcuno ci ferisce, la tentazione di rispondere allo stesso modo è immediata, quasi spontanea. Amare chi ci fa del male sembra impossibile. E infatti… lo è. Umanamente impossibile. Ma il perdono non nasce dalle nostre forze. È un dono, una grazia, uno di quei regali che Dio mette nel cuore di chi prova a seguirlo, anche barcollando.
E se dubiti che sia possibile, guarda la Croce. Guarda cosa hanno fatto a Gesù. Braccato. Venduto. Schernito. Torturato. Spogliato. Trafitto. Appeso a un legno come un maledetto. Bastava uno schiocco di dita, e tutto sarebbe finito. Un lampo, e i suoi aguzzini sarebbero evaporati. Ma Lui no. Lui ha scelto un’altra parola, una che ancora oggi ci disarma: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23,34).
E allora ti guardo negli occhi e ti chiedo: come si fa, noi che siamo fatti di carne e nervi e cicatrici, a perdonare così? La risposta è semplice e allo stesso tempo infinita: si fa lasciandosi amare da un Dio che è “compassionevole e misericordioso” (Es 34,6). Perché il suo amore diventa la forma del nostro amore. Il suo sguardo diventa il nostro sguardo. Il suo perdono diventa la nostra possibilità.
E allora capisci che perdonare non è essere deboli. È essere liberi. È essere figli di un Padre che ama senza condizioni. È essere discepoli di un Maestro che ha donato tutto, persino la vita: «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la propria vita per i suoi amici» (Gv 15,13).
Il perdono è la cosa più preziosa che hai ricevuto. E quando lo offri a qualcuno, anche a chi non se lo merita, stai facendo la cosa più divina che possa esistere: stai scrivendo bene nella storia di chi ha scritto male nella tua. Questo è il cuore di Dio. Un cuore che non misura. Non pesa. Non calcola. Un cuore che spalanca orizzonti di misericordia mentre noi restiamo fermi con la nostra piccola calcolatrice in mano.
E quel cuore ti dice: vivi. Respira. Lascia andare. Perdona. Perché chi perdona, torna a vedere la luce #Santanotte
Alessandro Ginotta

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