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Perché il chicco deve morire?

Bartolomé Esteban Murillo, Resurrezione di Cristo, 1650-1660, olio su tela, cm 243×164, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid.

Un brano di Vangelo che sembra triste… ma invece è pieno di gioia. Quella di Gesù, quella della vita!

Il mio in(solito) commento a:
Se il chicco di grano caduto in terra muore, produce molto frutto (Giovanni 12,20-33)

Un seme. Una cosa minuscola che, sul palmo di una mano, quasi neppure si vede e il vento la può disperdere chissà dove. Eppure, quando il chicco incontra il terreno fertile, mette radici, germoglia, e può crescere fino a trasformarsi in un albero secolare alto come un palazzo. La pianta, salda e robusta, produrrà frutti che daranno nutrimento e, l’albero stesso, darà ombra e protezione agli uccelli, diventerà casa di animali. Non c’è migliore metafora per definire la Parola di Dio: quando raggiunge i cuori delle persone che la ascoltano e la mettono in pratica (cfr. Mt. 7,24) essa produce frutti nutrienti ed abbondanti. Pensa alla stessa vita di Gesù: un “seme” che si è donato a noi totalmente con la morte in croce; ed è morendo che ha portato i frutti della Risurrezione e della salvezza. Ecco che iniziamo a capire che proprio la morte non è la fine di tutto, ma parte di un percorso naturale di trasformazione: il seme che “muore” per generare la vita.

Un seme che è solo apparentemente inerte, ma porta già, dentro di sé, il germe della vita, muore per trasformarsi in pianta rigogliosa. Perché a ben guardare dietro l’ombra della croce si può intravvedere lo sfolgorare della luce della Risurrezione, che esploderà nel Sepolcro.

L’accento non è sulla morte, ma sulla vita: l’obiettivo che ci propone Dio non è morire, ma produrre molto frutto. Perché la vera morte è la sterilità di chi non si dona, di chi non spende la propria vita. Scrivo queste parole mentre mi trovo in vacanza, nel cuore dell’estate, in Sicilia, la terra di mia moglie. A pochi passi da casa sorge piazza Falcone e Borsellino, dove campeggia un murales con i loro volti e la scritta: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Ed è proprio così: chi non si butta nella vita, cercando ogni istante di renderla migliore per il prossimo (e per sé) è come se in ogni momento rinunciasse a vivere. È un po’ come quel servo che ha sotterrato il talento per paura di perderlo, rinunciando così a metterlo a frutto. È un’offesa a Dio, che ci ha donato la vita per viverla pienamente, alla luce del Vangelo, non certo per risparmiarci senza mai scendere in campo.

Gesù ha bisogno di noi. Ha bisogno di persone sincere che, con la propria vita, diano il buon esempio. Persone assolutamente normali che conducono esistenze normali. Ma che nella loro quotidianità esprimano quei valori, quel modo di agire, quel modo di comportarsi, che Gesù ci ha sempre insegnato. Ecco che proprio uno studente, un operaio, un fornaio, un medico… sì, proprio ciascuno di noi, si può trasformare in una pagina vivente di Vangelo nel momento in cui ne incarna i contenuti.

Ora mi chiedo e ti suggerisco di chiederti: “Qual è il dono che Dio mi ha fatto? Quale talento mi chiede di usare, di mettere a frutto, per fare del mio meglio ed aiutare il prossimo?”. La risposta a questa domanda contiene una certezza: qualsiasi sia il seme che Dio ha posato in me (in te), il mio (tuo) dovere è quello di farlo germogliare, crescere e fruttificare. #Santanotte

Alessandro Ginotta

Bartolomé Esteban MurilloResurrezione di Cristo, 1650-1660, olio su tela, cm 243×164, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid.

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