Godiamoci questo scampolo di vita privata in cui Gesù dialoga con un amico: finalmente una persona con cui si può parlare! Un uomo con la mente aperta e lo spirito vivace, che sgattaiola tra le strade buie per infilarsi nella casa di Gesù senza farsi riconoscere. Di chi stiamo parlando? Scoprilo nel mio in(solito) commento a:
Dio ha mandato il Figlio perché il mondo si salvi per mezzo di lui (Giovanni 3,14-21)
Addentriamoci in questo villaggio, nel buio della notte, e seguiamo questo capo dei Giudei un po’ ribelle, di nome Nicodèmo, che coltiva, di nascosto, una bella amicizia con Gesù. Lo potremmo definire il “discepolo fariseo”.
Dottore della Legge, fariseo e membro del Sinedrio, tre elementi che ci farebbero collocare Nicodemo tra i “nemici” di Gesù, invece quest’uomo sgattaiola dal tribunale e si infila “di soppiatto” nella casa dove Gesù è ospite e si mette a chiacchierare con lui come si fa con un vecchio amico. Come “capo dei Giudei” non voleva esporsi, mostrandosi discepolo tra i discepoli, ma, come amico, rese onore a Gesù deposto dalla Croce quando, insieme a Giuseppe d’Arimatea, lo seppellì nella tomba (Gv 19,39-42). In quell’occasione, Nicodèmo porterà “una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre” (costosissima) per la preparazione del corpo di Gesù (Gv 19,39), una simile quantità, al tempo, veniva utilizzata soltanto per la sepoltura di un re.
Essere un fariseo, offre a Nicodèmo il vantaggio di una conoscenza approfondita delle Scritture. Si può confrontare con Lui, addentrandosi in temi preclusi alla maggior parte delle altre persone. Nicodèmo, per cultura e preparazione, può arrivare là dove gli altri arrancano. E può spingersi ancora oltre, grazie al suo secondo vantaggio: il non avere la mentalità chiusa e settaria dei suoi colleghi. Ecco un fariseo non limitato: non frena il suo spirito con la logica calcolatrice, ma gli concede di volare in alto, verso l’infinito. E’ così che ci potremo avvicinare al grande mistero di Dio.
È parlando con Nicodèmo che Gesù ci aiuta a capire il valore della croce: che non è solo dolore e sofferenza, ma è anche amore e dono. Parte da lontano questo viaggio nel mistero di Dio, con un riferimento ad un episodio dell’antico testamento che, letto isolatamente, ci lascia un po’ allibiti e disorientati, ma che, nel contesto di questo dialogo notturno tra due amici, si rivela un episodio di sorprendente chiarezza: “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (vv. 14-16).
Il serpente innalzato da Mosè nel deserto è un simbolo difficile: leggiamo nel libro dei Numeri (cfr. Numeri 21,4-9) che gli israeliti, in viaggio dal Monte Or al Mar Rosso, si persero d’animo ed iniziarono ad inveire contro Mosè, accusandolo di averli costretti a lasciare l’Egitto. In terra straniera, pur trovandosi in schiavitù, potevano comunque procurarsi il cibo necessario alla loro sopravvivenza. Attraversare il deserto, invece, li stava mettendo a dura prova: «Perché ci avete fatti salire fuori d’Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non c’è né pane né acqua, e siamo nauseati di questo cibo tanto leggero» (Numeri 21,5). Il deserto peggiore, però, era quello del loro cuore: avevano perso Dio e si lamentavano perfino della manna: il cibo che Dio offriva loro miracolosamente dal cielo.
E allora, dal cielo, cadde anche qualcos’altro: grovigli di serpenti velenosi che mordevano la gente, causandone la morte. Potrebbe sembrare una punizione esemplare ordinata da un Dio vendicativo. Invece no. E’ un male che fa bene, come la croce che, da strumento di morte, si trasforma in mezzo per la risurrezione. Dio risponderà alle preghiere di Mosè, ordinandogli di costruire un serpente di bronzo ed issarlo sopra un’asta: “E avveniva che, quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita” (Numeri 21,9). Il simbolo della morte e del tradimento (notate le analogie con la croce?) diventa strumento per la conversione. Gesù ci mette davanti al grande mistero della Croce: questa verità che ci spaventa. Difficile da comprendere. Davanti alla Croce, forse, non dovremmo neppure aprire bocca. Ma soltanto guardare: contemplare il grande mistero di Dio che, per amore, si è fatto uomo e, per amore, si è fatto Pane.
Questo è l’amore di Dio: il suo amarci per primo, senza ricatti, senza compromessi, senza costringerci ad amarlo a nostra volta.
È proprio questo amore incondizionato che è stato espresso sulla Croce, dove Gesù si è donato interamente a tutti noi. Il suo andare fino in fondo, il suo amare anche chi non lo ama, il suo arrivare al punto di consegnarsi alla volontà omicida di un’umanità distratta e confusa, ha ridefinito il concetto stesso di amore e di sacrificio. Perché “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).
“Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” (vv. 17-18).
E così scopriamo che il buio è scuro solo quando abbiamo le tenebre nel cuore, soltanto quando, un po’ come questo popolo spaventato dal deserto, fuggiamo lontano dallo stesso Dio che ci ha salvati. E’ quello che accade anche a noi quando ci smarriamo nelle nostre paure e nei nostri affanni. Perdiamo di vista il cielo e tutto diventa buio. E’ lì che incontriamo i serpenti velenosi. E’ lì che sperimentiamo le peggiori difficoltà. Abbiamo bisogno anche noi di un serpente innalzato, di una croce, che ci costringa ad alzare la testa e guardare all’insù. Là, in alto, dove ritroviamo Dio.
“E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (vv. 19-21). Dio è sempre luce. Ed è proprio l’ora più buia quella che precede l’alba. #Santanotte
Alessandro Ginotta
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